Avv. Giuseppe Croari – Dott. Pietro Sambataro
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Chi utilizza il web per promuovere i propri beni o i propri servizi sa bene che uno degli obbiettivi da perseguire per avere successo su internet è raggiungere visibilità e rintracciabilità nelle ricerche. Una delle applicazioni più utilizzate per tale esigenza è costituita da Google Ads: software dell’azienda di Mountain View, nel quale è possibile acquistare delle parole chiave, che, qualora digitate da un utente in una query, faranno comparire degli annunci pubblicitari in appositi spazi della SERP (la pagina dei risultati di ricerca).

Com’è facile intuire, tale sistema, basato sull’utilizzo di parole e nomi, presenta talune criticità dal punto di vista legale, soprattutto sotto il profilo della proprietà intellettuale. Si pensi, ad esempio, al caso in cui io voglia acquistare quale keyword il nome del mio principale competitor, al fine di far visualizzare le mie inserzioni agli utenti che lo cercano su internet. È una pratica corretta o, piuttosto, rischio di incappare in sanzioni?

Data la sempre più centrale importanza del commercio online e viste le caratteristiche proprie dell’Industria della Moda – da sempre sensibile alla tutela di marchi e opere dell’ingegno – abbiamo deciso di parlane in questo articolo.

La normativa di riferimento

Il leading case in materia coinvolge anche una famosissima casa di moda: Louis Vuitton (C.G.U.E., Sentenza del 23 marzo 2010, cause riunite C-236/08 a C-238/08). A dire il vero, le aule giudiziarie continuano ad essere popolate da casi analoghi, riguardanti ormai tutti i settori merceologici (si veda, ad esempio Tribunale Milano Sez. spec. in materia di imprese, Sent., 08-11-2019, riguardante una società operante nel settore prodotti anti-age, integratori alimentari e cosmetici). La normativa di riferimento, invece, è sempre costituita dal Codice della proprietà industriale (Decreto Legislativo 10 febbraio 2005, n. 30) e, in particolare dagli articoli 20 (Diritti conferiti dalla registrazione) e 21 (Limitazioni del diritto di marchio) e, a livello europeo, dalla Direttiva (UE) 2015/2436, agli articoli 10 e seguenti, e dal Regolamento UE 2015/2424.

Il caso Louis Vuitton c. Google Inc. e Google France

Veniamo ad esaminare le statuizioni della Corte di Giustizia Europea in materia. Nelle cause riunite prima menzionate (C-236/08 a C-238/08), i giudici del Lussemburgo si sono trovati a giudicare, fra le altre cose, la legittimità della condotta di talune società che avevano acquisito come keyword su Google Ads alcune parole corrispondenti a marchi di proprietà di Louis Vuitton, al fine di migliorare il posizionamento di link che rimandavano a siti che, a loro volta, offrivano imitazioni dei prodotti della celebre maison.

La Corte di Giustizia, al riguardo, notava anzitutto che solitamente l’utente di internet che digita il nome di un marchio visualizza, fra i primi risultati naturali della ricerca, proprio i siti del titolare del marchio, che appaiono più pertinenti e, dunque, hanno maggior visibilità (punto 67 e 96). Pertanto, la visualizzazione di link sponsorizzati sopra o a lato di tali risultati verrebbe percepita dal consumatore quale alternativa.

Si tratterebbe quindi di un uso legittimo del marchio altrui, sempre a patto, però, che l’utente non sia indotto in errore.

Infatti, la Corte precisava che Qualora l’annuncio del terzo adombri l’esistenza di un collegamento economico tra tale terzo e il titolare del marchio, si dovrà concludere che sussiste una violazione della funzione di indicazione di origine”, così come quando l’annuncio (…) sia talmente vago sull’origine dei prodotti o dei servizi in questione che un utente di Internet normalmente informato e ragionevolmente attento non sia in grado di sapere, sulla base del link pubblicitario e del messaggio commerciale allegato, se l’inserzionista sia un terzo rispetto al titolare del marchio” (Punti 89 e 90).

Conclusioni

Come si è visto, dunque, è possibile acquistare su Google Ads parole corrispondenti a marchi e segni distintivi altrui, purché gli annunci sponsorizzati non siano tali da indurre l’utente in errore sull’origine dei beni e prodotti promozionati. A tal fine, si renderà necessario lavorare sull’inserzione, prestando particolare attenzione alla chiarezza delle formule utilizzate.

 

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