Avv. Giuseppe Croari – Dott.ssa Rebecca Princi
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E-commerce, influencer marketing, marketplace sui social network: che la dimensione online sia imprescindibile per qualsiasi azienda del settore della Moda che non voglia farsi scavalcare dalla concorrenza è ormai un dato di fatto.

Tra le varie pratiche che consentono alle aziende di farsi conoscere e di influenzare le abitudini di consumo degli utenti, ce n’è una che solleva problemi particolarmente attuali e delicati: il ricorso alla pubblicità targettizzata. Vediamola insieme.

La pubblicità targettizzata: cos’è e perché è importante per le aziende del settore?

Il mercato globale della pubblicità online registrava nel 2019 un valore di 319 miliardi di dollari e si prevede che raggiungerà i 1.089 miliardi di dollari entro il 2027.
Com’è evidente si tratta di un mercato importantissimo e in crescita costante, che di certo non ha lasciato a guardare le imprese che operano nel settore della moda: ma come funziona?

La pubblicità targettizzata è un particolare tipo di sponsorizzazione, che intende ridurre il più possibile un fattore di rischio tipico di ogni attività pubblicitaria, ovvero il rischio di “sprecare energie” rivolgendosi a persone che non saranno interessate dall’annuncio.

La targettizzazione, o targeting, punta infatti a riconoscere e raggiungere le persone potenzialmente interessate al prodotto sponsorizzato e a mostrare l’annuncio in una veste il più accattivante possibile per il singolo utente.
Nella pratica, ciò avviene sul web attraverso la creazione di annunci personalizzati, cuciti su misura del soggetto, grazie alla raccolta e all’elaborazione di dati personali che lo riguardano.

Targettizzazione e diritti: quali rischi?

In base al metodo impiegato per la targettizzazione, possiamo individuare tre tipologie fondamentali di pubblicità mirata:

  • il contextual advertising, consistente nel far comparire determinati annunci in ragione del contenuto della pagina web visitata o delle parole chiave usate nella query;
  • il segmented advertising, basata su caratteristiche note del soggetto, e solitamente condivise da determinati gruppi di persone (come, ad esempio, sesso ed età);
  • il behavioural advertising, che si fonda sulla costruzione di un profilo in base all’osservazione del comportamento online della persona (ad esempio pagine visitate e ricerche effettuate).

È evidente che quest’ultima tecnica di targettizzazione sia la più incisiva e potenzialmente problematica tra quelle richiamate: il tracciamento dei comportamenti, se incontrastato, può infatti sfociare nella sorveglianza e comportare gravi violazioni della privacy, mettendo così a rischio i diritti degli utenti.

Le regole per le aziende
Data l’importanza economica e i rischi insiti nelle attività di tracciamento, il legislatore si è adoperato per l’adozione di regole chiare e incisive.

Infatti, come ogni altra attività di raccolta ed elaborazione di dati personali, anche il trattamento di dati personali necessario alla creazione di annunci personalizzati è sottoposto alla regolamentazione dettata dal Regolamento generale sulla protezione dei dati (GDPR), del Codice Privacy e dei relativi provvedimenti dell’Autorità Garante (da ultimo, le Linee Guida del giugno 2021).

Ai sensi dell’articolo 6 del GDPR, il trattamento – per essere lecito – deve essere fondato su una delle basi giuridiche esplicitate nell’articolo, tra le quali troviamo il consenso libero, specifico, informato e inequivocabile del soggetto al quale i dati si riferiscono, che è spesso l’unica base giuridica sulla quale può fondarsi il trattamento dei dati a scopi pubblicitari.

Ma non solo: una volta acquisito il consenso dell’interessato, il trattamento deve avvenire nel rispetto dei principi e delle regole dettate dal Regolamento, la cui mancata osservanza comporta l’irrogazione di pesanti sanzioni pecuniarie.

 

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