Ogni anno è la stessa storia: quando vengono pubblicate le statistiche internazionali sulle spese per ricerca e sviluppo in rapporto al Pil, l’Italia viene sempre tacciata di “arretratezza”. La più aggiornata è quella resa nota dall’Ocse il 29 marzo scorso e si riferisce ai dati 2010: il nostro Paese spende nelle attività di R&D circa l’1,26% del valore del suo Prodotto interno lordo, ovvero circa 19.200 milioni di euro in linea con quanto rilevato dall’Istat nel 2009. Siamo nella parte bassa della classifica, sotto la media europea e dietro a Spagna, Estonia e Portogallo.
Eppure, pur in una condizione di crisi generalizzata, la struttura produttiva italiana resiste, sforna quote di export che fanno pendere in positivo la bilancia dei pagamenti, il Made in Italy continua a conquistare seguaci nel mondo e specialmente in quei Paesi dai ritmi di sviluppo impetuosi che si affacciano sempre più sui segmenti di mercato dell’alta qualità e del lusso. Sembra una contraddizione in termini, visto che il contributo del progresso scientifico e tecnologico alla crescita economica è stato stimato in circa il 50% della stessa. Com’è dunque possibile che, con investimenti in ricerca e sviluppo così bassi, l’Italia riesca comunque a competere nel mondo?
La risposta è: la ricerca si fa ma non viene formalizzata, ovvero non risulta nelle statistiche. E ciò deriva sia da una serie di caratteristiche specifiche del sistema manifatturiero italiano, sia dai meccanismi di rilevazione delle spese delle imprese.
Chiunque abbia un po’ di dimestichezza con il mondo produttivo italiano sa che l’innovazione è uno dei capisaldi del suo successo, insieme alla creatività, al buon gusto che deriva dalla storia e dalla tradizione, all’originalità, al know-how. La spina dorsale sono le piccole e medie imprese, che costituiscono circa il 95% del totale delle aziende italiane, per le quali le funzioni di ricerca e sviluppo fanno semplicemente parte della normale attività produttiva, con piccoli miglioramenti continui, spesso in stretta collaborazione coi fornitori in un ciclo senza fine. L’innovazione può assumere forme diverse dalla ricerca svolta nei laboratori, in molti casi si tratta di tecnologie incorporate in nuovi materiali, nell’integrazione tra design e nuovi materiali, nell’applicazione di tecnologie avanzate, in prodotti personalizzati sulla base delle esigenze del cliente, anche attraverso un processo di imitazione dei propri concorrenti. Gli osservatori dell’Ocse la definiscono “attività di micro ricerca latente”.
È difficile “monetizzare” questi costi, quindi non compaiono nei bilanci, sia perché sarebbe difficile dare un valore, “scorporare” qualcosa che viene compiuto abitualmente, a piccoli passi, sia perché il sistema di tassazione spinge a contabilizzare gli investimenti in ricerca come spesa e non come capitalizzazione immateriale, che è quella che viene rilevata dalle statistiche.
L’Italia, se è ancora poco presente nei settori ad alta tecnologia, è invece competitiva in molti settori ad alta intensità di innovazione. Il settore del tessile/pelli/calzature è uno di quelli in cui, tradizionalmente, c’è scarsa intensità di ricerca scientifica, eppure le quote di mercato internazionali e il fatturato dovuto a nuovi prodotti delle imprese italiane dimostrano che siamo capaci di innovare continuamente, affascinando il mondo.
Piuttosto, ciò di cui ci sarebbe bisogno è un maggiore aiuto per poter valorizzare i prodotti derivanti da questa capacità, sia attraverso una maggiore conoscenza dei vantaggi derivanti dalla protezione della proprietà intellettuale (marchi e brevetti), sia attraverso il supporto all’internazionalizzazione per raggiungere sempre nuovi mercati.