di Avv. Giuseppe Croari – Dott. Pietro Sambataro, www.fclex.it.
Specialmente negli ultimi tempi, i contatti fra mondo della Moda e videogame sono stati frequenti e serrati, al punto che molti hanno iniziato a interessarsi al fenomeno del “Fashion gaming”.
Nel 2019 Louis Vuitton ha disegnato ben 5 outfit (le cd. “Skin”) per altrettanti personaggi virtuali del popolare videogioco online League of Legends, a cui ha fatto seguito la creazione di una linea ispirata ai design del gioco.
E non si tratta dell’unica maison che si è cimentata in questo nuovo mondo: è infatti di quest’anno l’accordo tra Gucci e Wildlife per la creazione di uno speciale guardaroba per i protagonisti del gioco Tennis Clash, così come la notizia del fatto che gli avatar del gioco Pokemon GO potranno vestire Uniqlo.
Uno degli eventi più emblematici del 2020, tuttavia, rimane probabilmente la sfilata organizzata dal Reference Festival di Berlino per la prima volta completamente dedicata ai videogame. L’evento, che si è svolto su Animal Crossing: New Horizons, si è popolato di avatar con look ispirati ai capi di case di Moda di primo piano, alle volte addirittura forniti su iniziativa delle stesse.
L’assalto della Fashion Industry al mondo videoludico non è motivato solo da scopi ricreativi: far comparire i propri prodotti e il proprio marchio in un videogioco, infatti, è un’occasione per guadagnare visibilità e brand awareness in un pubblico più giovane che sarebbe altrimenti difficilmente raggiungibile.
Il Fashion gaming, dunque, sta accendendo l’entusiasmo di molti, ma presenta talune criticità dal punto di vista giuridico, in particolar modo sotto due profili: in primo luogo perché, trattandosi di attività con risvolti pubblicitari, deve essere svolta con una serie di cautele. In secondo luogo, perché si prospettano all’orizzonte talune questioni riguardanti la proprietà intellettuale. Vediamole assieme.
La differenza tra In-game advertising e Advergaming
I videogiochi sono da tempo terreno elettivo per condurre, soprattutto fra i più giovani, campagne pubblicitarie a fini commerciali, politici e altro. Il fenomeno è così consolidato che sono state elaborate delle macrocategorie per descriverlo. Si parlerà, quindi, di:
- In-game advertising: nel caso di inserimento di annunci pubblicitari all’interno dei videogame e delle sessioni di gioco. Si pensi al cartellone pubblicitario collocato in una città virtuale, o ai banner pubblicitari a bordo campo nei videogame sportivi.
- Advergaming: nel caso in cui un videogioco venga sviluppato al preciso scopo di comunicare messaggi pubblicitari. Un esempio celebre di advergaming è Pepsi Invaders, gioco commissionato da Coca Cola addirittura nel 1983, in cui il giocatore doveva sconfiggere i nemici costituiti da lettere della scritta Pepsi, storico competitor dell’azienda.
Il Fashion gaming, dunque, potrebbe potenzialmente rientrare in entrambe le categorie. Ad esempio, giocare con un avatar con vestiti firmati secondo dinamiche di gioco per il resto normali costituirebbe un chiaro esempio di In-game advertising. Diversamente, un gioco che consistesse nella partecipazione o organizzazione di sfilate relative a un determinato brand potrebbe costituire Advergaming.
Fashion gaming: la normativa in tema di pubblicità e di proprietà intellettuale
Vediamo dunque qual è la normativa in materia pubblicitaria che potrebbe applicarsi a questi casi e, a seguire, quali questioni il Fashion gaming solleva anche in materia di proprietà intellettuale.
In primo luogo, nel diritto italiano è rinvenibile un riferimento esplicito all’Advergaming nel Regolamento Digital Chart dell’Istituto dell’Autodisciplina Pubblicitaria (I.A.P.) che, al numero 10, dispone, che:
A prescindere dall’espresso riferimento a tale tecnica pubblicitaria, poi, l’intera disciplina del Codice I.A.P. sembra potersi applicare. Infatti, la lettera e) delle Norme preliminari e generali dispone che, ai fini del Codice, il termine
Pertanto la comunicazione commerciale, così intesa, dovrà essere onesta, veritiera e corretta (Art. 1 Codice IAP), sempre riconoscibile come tale e nettamente distinta da altro tipo di contenuti (art. 7 Codice IAP).
Con specifico riferimento ai minori, poi, l’art. 11 del Codice prescrive che i messaggi pubblicitari non devono contenere nulla che possa danneggiarli psichicamente, moralmente o fisicamente e non devono inoltre abusare della loro naturale credulità o mancanza di esperienza, o del loro senso di lealtà.
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