Moda e circolarità nell’era digitale

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Avv. Giuseppe Croari – Dott. Francesco Rabottini

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L’economia della moda si sta preparando ad un cambiamento di dimensioni epocali. Gli standard produttivi, la filiera e le aziende dovranno fare i conti con una normativa all’avanguardia avente un duplice obiettivo: diminuire l’inquinamento ambientale e, al contempo, contrastare il greenwashing.

L’Industria della moda, infatti, si posiziona al secondo posto tra quelle maggiormente inquinanti, essendo responsabile di circa il 10% delle emissioni globali di gas serra e del 20% dello spreco globale di acqua. In un mercato in cui la domanda è in costante aumento e la qualità dei capi in costante diminuzione, il poliestere la fa da padrone, continuando ad essere la prima fibra tessile utilizzata al mondo e a rilasciare un quantitativo non indifferente di microplastiche nell’ambiente.

Italia: un esempio da non seguire

Nel 2024 in Italia il consumo frenetico di prodotti dalla vita breve e di bassa qualità ha portato ogni abitante, in media, a generare circa 2,7kg di rifiuti tessili, per un totale di 160.000 tonnellate.

Si tratta di un trend negativo in crescita in tutto il territorio dell’UE, che ha spinto il legislatore comunitario ad un intervento correttivo significativo, in un’ottica di promozione di un’economia circolare, definibile come un “modello di produzione e consumo che implica condivisione, prestito, riutilizzo, riparazione, ricondizionamento e riciclo dei materiali e prodotti esistenti il più a lungo possibile”.

La risposta dell’Europa: il passaporto digitale di prodotto

Il regolamento UE di riferimento è il 2024/1781 o “ESPR”, concepito con l’obiettivo di migliorare la circolarità e, di conseguenza, la sostenibilità ambientale dei prodotti immessi sul mercato. In linea con il Piano d’azione per l’economia circolare 2020, parte integrante del Green Deal europeo, il regolamento in parola ha predisposto l’introduzione di un nuovo strumento, il c.d. “Digital Product Passport” (DPP), il quale mira a potenziare la trasparenza lungo tutta la value chain dei prodotti.

Il DPP costituisce una vera e propria carta d’identità dei prodotti, contenente informazioni elettronicamente accessibili tramite identificativi come un codice QR o un tag NFC. Questo passaporto diventerà obbligatorio nel 2027, ma solo per alcune categorie di prodotti, mentre si dovrà attendere il 2030 per ottenere una graduale estensione del suo ambito di applicazione a tutte le tipologie di prodotti.

L’Allegato III del regolamento citato reca l’indicazione dei dati che possono o devono essere inclusi all’interno del DPP, tra i quali, a titolo esemplificativo, il codice GTIN (Gobal Trade Identification Number), le informazioni e documentazioni di conformità previste dal regolamento stesso, le informazioni concernenti il fabbricante nonché le istruzioni in formato digitale riguardanti il singolo prodotto, tra cui le modalità di installazione, uso, manutenzione e riparazione.

La fiducia dei consumatori: una lama a doppio taglio per le aziende

“Per le aziende del manufatturiero il DPP rappresenta una sfida, in quanto ulteriore adempimento normativo, ma soprattutto un’opportunità per guardare alla sostenibilità come obiettivo finalmente raggiungibile”.

A scatenare una rivalutazione di massa sulla moda sostenibile ha contribuito la pandemia: è infatti cresciuto considerevolmente il numero di consumatori che ritengono le aziende responsabili per la protezione dell’ambiente.

Non solo, una buona percentuale di consumatori ritiene lecito “boicottare” un brand se non adeguatamente impegnato a preservare il pianeta. In un settore caratterizzato da un elevato rischio di greenwashing, le aziende risultano essere concentrate più sul sembrare sostenibili, invece che esserlo concretamente.

Al fine di evitare che questo comportamento continui a produrre effetti negativi, sia sulla fiducia dei consumatori, sia sugli sforzi per ridurre l’impatto della moda sull’ambiente, le aziende dovrebbero investire sull’adozione di metriche il più possibile trasparenti per misurare il proprio livello di sostenibilità e contribuire al raggiungimento degli obiettivi climatici.

In questo senso, nonostante la normativa europea citata fungerà da punto fermo al quale attenersi e fare riferimento, solamente il tempo potrà rivelare se l’impatto concreto che la stessa avrà sullo stato attuale delle cose sarà effettivamente di segno positivo.

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