Pratiche tariffarie anticoncorrenziali tra i brand della Moda

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Avv. Giuseppe Croari – Dott.Francesco Zizzo

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La Commissione Europea il 14.10.25 ha sanzionato alcuni marchi di Alta Moda, accusati di aver tentato di controllare i prezzi al dettaglio dei propri prodotti.

L’autorità ha annunciato di aver multato Gucci, Chloé e Loewe per un totale complessivo di 157,4 milioni di euro per aver posto in essere pratiche di fissazione illegale dei prezzi di rivendita (Resale Price Maintenance, “RPM”) all’interno dello Spazio Economico Europeo.

Secondo la Commissione, tali case di Moda avrebbero sistematicamente impedito ai rivenditori indipendenti di fissare liberamente i propri prezzi di vendita, sia online sia offline, violando così le norme dell’UE in materia di concorrenza.

Le condotte contestate dalla commissione

Gli accordi di fissazione del prezzo di rivendita (Resale Price Maintenance, “RPM”) sono intese contrattuali tra produttori o fornitori e i loro rivenditori o distributori, con le quali le parti concordano i prezzi minimi o fissi a cui i prodotti devono essere rivenduti ai consumatori.

In sostanza, tali accordi stabiliscono un prezzo minimo al di sotto del quale i rivenditori non possono vendere quei prodotti.

In particolare, le tre aziende di moda, stando alla decisione della Commissione, avrebbero interferito con le strategie commerciali dei propri rivenditori imponendo loro una serie di restrizioni, tra cui l’obbligo di non discostarsi da:

  1. prezzi al dettaglio raccomandati;
  2. percentuali massime di sconto;
  3. specifici periodi destinati alle vendite promozionali.

In alcuni casi, e almeno temporaneamente, avrebbero anche vietato ai rivenditori di applicare qualsiasi tipo di sconto sui propri prodotti. In pratica, queste società si sarebbero adoperate affinché i rivenditori applicassero gli stessi prezzi e le medesime condizioni di vendita praticati nei canali di vendita diretti.

Le pratiche contestate e qui brevemente descritte sarebbero comunque terminate, per tutte e tre le aziende di moda, dall’aprile 2023, a seguito di alcune ispezioni a sorpresa presso le loro sedi da parte della Commissione.

Le norme oggetto del giudizio

Le pratiche anticoncorrenziali in ciascuno dei tre casi costituirebbero un’unica e continuata violazione dell’articolo 101 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE), che vieta gli accordi e le altre pratiche restrittive della concorrenza idonee ad alterare gli scambi e a limitare o impedire la concorrenza nel mercato unico. In particolare, l’art 101del TFUE prescrive:

Sono incompatibili con il mercato interno e vietati tutti gli accordi tra imprese, tutte le decisioni di associazioni di imprese e tutte le pratiche concordate che possano pregiudicare il commercio tra Stati membri e che abbiano per oggetto o per effetto di impedire, restringere o falsare il gioco della concorrenza all’interno del mercato interno.

Questo tipo di comportamento anticoncorrenziale aumenta i prezzi e riduce le possibilità di scelta per i consumatori andando a ledere uno dei pilastri fondamentali del mercato unico europeo, la concorrenza.

Le tre aziende di moda avrebbero in ogni caso agito in modo indipendente l’una dall’altra, sebbene la durata dei tre casi si sovrapponga e molti dei rivenditori coinvolti commercializzassero prodotti di tutti e tre i marchi.

Le tre decisioni qui esaminate sono quindi di particolare importanza non solo perché riguardano il segmento di fascia alta dell’Industria della Moda, ma perché rappresentano un forte segnale di contrasto alle pratiche di fissazione dei prezzi di rivendita (RPM), sia per le vendite online sia per quelle nei negozi fisici.

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