Avv. Giuseppe Croari – Dott.ssa Silvia Di Paola
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Il fenomeno del Fast Fashion comporta spunti di riflessione laddove le esigenze di economicità ed efficienza vadano eventualmente a scontrarsi con la tutela della salute.

Nel corso degli anni varie associazioni, fra cui ad esempio Greenpeace – tramite reports ed inchieste, nonché attraverso l’analisi in laboratorio di campioni – hanno messo in luce come capi di abbigliamento di alcune grandi piattaforme di e-commerce contengano materiali tossici e sostanze come ftalati e metalli pesanti.

Il caso di agosto 2024

Nonostante l’adozione della direttiva (EU) n. 1760/2024 riguardante il più generale tema dell’ecosostenibilità e della protezione dei diritti umani, ad agosto dopo un sequestro e analisi di un centinaio di prodotti venduti online le autorità di Seul hanno rinvenuto in diverse merci la presenza di sostanze tossiche in misura superiore ai limiti consentiti dalla legge.

Il caso è “rimbombato” sui social come TikTok e Instagram e anche diversi influencer non hanno mancato di sottolineare la necessità di un intervento concreto al riguardo.

A rilanciare la questione è intervenuto anche il sito tedesco Öko-Test che ha rilevato, tramite corredate analisi, come troppo spesso i capi di abbigliamento venduti online siano “qualitativamente inadeguati“.

Il Regolamento REACH

Il Regolamento (CE) n. 1907/2006 del Parlamento europeo e del Consiglio è entrato in vigore in data 1° giugno 2007. La sigla REACH deriva dall’inglese e indica “Registrazione, valutazione, autorizzazione e restrizione delle sostanze chimiche”.

Il REACH stabilisce le procedure per la raccolta e la valutazione delle informazioni sulle proprietà delle sostanze e sui pericoli che derivano da esse, prevedendo fra l’altro:

  • l’adozione di restrizioni di portata generale per alcune categorie di sostanze;
  • l’accesso del pubblico alle informazioni sulle proprietà tossicologiche e ambientali delle sostanze chimiche;
  • un’attività di informazione e assistenza tecnica alle imprese;
  • un’attività di controllo e vigilanza da parte degli Stati membri per garantire il rispetto dei requisiti previsti dal regolamento.

ECHA: l’Agenzia europea per le sostanze chimiche

L’organismo incaricato di coordinare le azioni legate al REACH e alla sua applicazione è l’Agenzia europea dei prodotti chimici anche conosciuta con l’acronimo ECHA.

Il processo di valutazione da parte dell’ECHA ha inizio con la valutazione della conformità del fascicolo di registrazione della sostanza e con l’eventuale richiesta di test ulteriori sulla sostanza medesima.

Alla valutazione in quanto tale segue un progetto di decisione, il quale viene inviato al dichiarante della sostanza affinché possa presentare eventuali osservazioni; al progetto consegue la decisione vera e propria da parte dell’ECHA.

Per definire i rischi, il livello di esposizione da parte dell’utilizzatore viene confrontato con il livello pari al quale l’effetto sulla salute è nullo (DNEL) e con le concentrazioni previste in un dato ambiente.

Vengono poi valutate la probabilità e la gravità di un evento dovuto alla natura della sostanza. Se questi tre fattori sono ritenuti a livelli trascurabili, si ritiene che durante il ciclo di vita della sostanza il rischio sia sotto controllo.

Le sostanze che invece superano le soglie di pericolosità sono sottoposte a restrizioni o persino a divieto. Rientrano nell’ambito delle “sostanze altamente preoccupanti” o SVHC, le CMR ovvero le sostanze cancerogene, mutagene e tossiche, le PBT che si decompongono lentamente o che non si decompongono affatto e le sostanze vPvB le quali sono estremamente persistenti e bioaccumulabili.

Il controllo degli Stati Europei

Il regolamento REACH prevede la nomina di un’autorità nazionale per ciascuno Stato. Il Italia il ruolo in esame è ricoperto dal Ministero della Salute. Ciascuna autorità nazionale ha la responsabilità dell’applicazione del REACH sul proprio territorio, scambia informazioni e si coordina con le altre autorità nazionali a livello europeo.