Avv. Gianluigi Fioriglio – Dott.ssa Alice Rinauro
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Il marchio è sempre uno dei primi elementi identificativi di un brand, dietro al quale si celano un insieme di sensazioni ed emozioni create nel tempo dall’azienda. Questa caratteristica è particolarmente sentita anche dalle case di Moda, proprio per la capacità dei marchi efficaci di determinare una serie di associazioni emozionali e reazionali nel pubblico. Ad esempio, un marchio di Alta Moda su una borsa può trasmettere automaticamente un’idea di lusso, qualità, tradizione.

Spesso quindi in un marchio l’azienda racchiude la sua credibilità e conoscibilità sul mercato e vi connette le sue potenzialità di vendita e di guadagno.

Ma cosa accade se più aziende hanno un marchio simile e, quindi, facilmente confondibile dal pubblico?

Gli accordi di coesistenza

Una possibile soluzione per i rispettivi titolari è di accordarsi per determinare i limiti e le modalità di utilizzo di un determinato segno identificativo, in modo da prevenire a monte il rischio di confusione in capo alla clientela e cercare di contenere i possibili conflitti di contraffazione. Ad esempio, una lettera dell’alfabeto può essere usata da più aziende con forme o colori diversi, caratterizzandosi così distintamente l’uno dall’altro.

In questi casi si parla appunto di accordo di coesistenza.

Si tratta di un vero e proprio contratto, a carattere transattivo – ovvero un contratto rivolto a prevenire future controversie – con il quale le parti riconoscono i rispettivi diritti sui determinati segni distintivi (e quindi sui marchi), stabilendone i relativi e rispettivi diritti e i limiti di utilizzo per limitare e prevenire il rischio di confusione nel pubblico.
Lo scopo di questi accordi è dunque evitare che i segni distintivi possano interferire e veicolare un messaggio diverso da quello di cui sono portatori nelle intenzioni dell’azienda che lo predispone.

Dal punto di vista contenutistico, questi accordi lasciano ampio spazio alle parti per trovare gli accordi per ciascuno più opportuni e si prestano a una varietà di clausole rivolte a pattuire dettagliatamente i limiti reciproci di utilizzabilità del marchio. Ad esempio, possono contenere limitazioni riguardanti determinate classi di prodotti o servizi: così, un brand che si occupa di abbigliamento può limitare l’utilizzo di un marchio allo specifico settore dell’abbigliamento sportivo. Oppure si possono stabilire particolari modalità di utilizzo del marchio: in questo modo, i titolari potrebbero impegnarsi reciprocamente a usare ciascuno un solo determinato colore per quel specifico segno distintivo.

Una recente pronuncia del Tribunale di Milano (la numero 4346 del 7 maggio 2019), al riguardo, ha precisato che, per assolvere alla propria funzione di evitare l’effetto confusorio e ingannevole, questi accordi devono essere il più dettagliati e precisi possibile. Diversamente, si corre il rischio che determinate frasi possano essere fraintese o interpretate in modo tale da aggirare la finalità anti-confusoria a cui è destinato l’accordo.

Il re-branding e il rischio di confusione

In presenza di un accordo di coesistenza, alcuni rischi si possono presentare nel caso di re-branding da parte di uno dei titolari di un marchio. Adottando questa particolare strategia di marketing, un’azienda punta infatti a rinnovare l’immagine dei propri prodotti e ad espandere il proprio business verso nuovi settori. Si capisce che, se esiste un accordo di coesistenza, il re-branding dovrà essere effettuato facendo attenzione a non violare le condizioni di utilizzo concordate, ad esempio, invadendo un settore di esclusiva competenza dell’altro titolare.

Questo accordo è sicuramente uno strumento di tutela valido per permettere a più aziende di continuare ad utilizzare il proprio marchio nei rispettivi ambiti di interesse, ma è opportuno che, stabilendone le condizioni, le parti guardino al futuro cercando di prevedere eventuali future espansioni del proprio business, in modo che l’accordo di coesistenza sia idoneo a durare nel tempo.

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