Possono waste (“scarto, rifiuto”) e Luxury, due concetti apparentemente opposti, coesistere in armonia nella stessa frase o persino nello stesso materiale? I numerosi esempi di successo aventi per protagonisti materiali “di riciclo” suggeriscono di sì.

La tendenza giunge in risposta a un tipo di waste associato all’Industria della Moda: oltre a inquinamento atmosferico e idrico, impoverimento del suolo e sfruttamento umano e animale, il settore Tessile è anche responsabile di esorbitanti quantità di spreco pre e post-consumer.

Katherine Maunder, fondatrice di Thread Tales

Tuttavia, oggi i brand hanno l’opportunità di scegliere tra numerose soluzioni per eliminare gli sprechi. Oltre al riciclo di rifiuti plastici e agricoli, infatti, numerosi marchi si stanno orientando anche verso il riutilizzo dello stesso textile waste. Ne è un esempio il cashmere, emblema di lusso ed esclusività per eccellenza.

«La nostra missione è cambiare la percezione negativa associata ai materiali riciclati e scardinare l’idea che essi non possano esistere sul mercato del Lusso» spiega Katherine Maunder, fondatrice di Thread Tales, azienda specializzata in tessuti sostenibili. Il brand utilizza regolarmente cashmere da allevamenti certificati ma, con la propria linea in cashmere rigenerato, intende porre sotto una nuova luce un materiale altamente performante che unisce un ridotto impatto ambientale a un’eccellente qualità.

Equilibri pericolosi

Con la globalizzazione e la democratizzazione della Moda, la domanda sul mercato è aumentata e il cashmere, nelle sue varianti a prezzo e qualità inferiori, è ora un “lusso” accessibile a molti.

Contrariamente alla domanda, non sono però aumentati la quantità di filato fruibile per singolo animale (anche se si parla attualmente di selezione e allevamento mirato di esemplari più “prolifici”) e la quantità di pascoli a disposizione. Mentre seta, cotone e cuoio possono essere prodotti tramite un sistema di farming intensivo e modulare, il cashmere dipende interamente dall’ecosistema di una ridotta area geografica. Per far fronte alla pressione, gli allevatori hanno dovuto incrementare proporzionalmente il numero di capre, con devastanti conseguenze per ambiente, animali e gli stessi produttori. Inoltre, a causa dell’abitudine delle capre di strappare l’erba alla radice, l’intensivo utilizzo dei pascoli sta causando un progressivo impoverimento del suolo.

Secondo il United Nations Development Programme, il 90% della Mongolia è attualmente a rischio di desertificazione. Ciò comporta la riduzione dei pascoli disponibili, un maggior rischio di frane e un aumento delle temperature. Risultato: mentre la richiesta continua a crescere, l’allevamento va incontro a maggiori difficoltà e i prezzi si abbassano insieme alle condizioni di vita di allevatori e greggi.

Credits: THREAD TALES

«Quello della sostenibilità è un problema su scala globale e il settore del Tessile, incluso quello del cashmere, non fa eccezione» spiega Jim Coleman, rappresentante del CCMI – Cashmere and Camel Hair Manufacturers Institute, un’associazione con basi negli Stati Uniti, in Italia e in Asia che si occupa di ridefinire gli standard di produzione dell’intera filiera del cashmere.

«Il CCMI riconosce che, pur costituendo solo una parte delle sfide dell’Industria della Moda, l’elemento sostenibilità nel cashmere influenza tanto il footprint socio-ambientale quanto la reputazione della fibra stessa. Perciò ci impegniamo attivamente, in collaborazione con varie entità a livello globale, a generare, supportare e implementare programmi potenziabili su ampia scala e dall’impatto misurabile».

Secondo il CCMI, nel caso del cashmere ciò si traduce in una supply chain controllata, monitorabile da capra a consumatore, che rispetti l’ambiente e il benessere animale, e che risponda a specifici criteri di responsabilità legale e sociale pur rimanendo economicamente attuabile in tutte le sue fasi.

Per realizzare questa visione, il CCMI è attualmente coinvolto in un pilot programme volto a istituire un modello di monitoraggio sistematico applicato per garantire l’aderenza, lungo l’intera supply chain, a rigidi standard di sostenibilità. Il progetto, attualmente testato su una porzione ridotta della filiera del cashmere con all’origine una piccola comunità di allevatori in Cina, è sotto costante revisione e il CCMI è «ottimista riguardo a una sua applicabilità su larga scala» a breve, conclude Coleman.

Re-engineered cashmere

Gli equilibri tra economia e pianeta associati alla produzione del cashmere sono, quindi, vertiginosamente precari. Una delle soluzioni proposte vede l’utilizzo di re-engineered cashmere.

«Il cashmere riciclato, se opportunamente certificato e monitorato, può essere d’aiuto nell’allungare il ciclo vitale di questa preziosa fibra» commenta Coleman «e, qualora la lavorazione comprometta parzialmente la qualità, può offrire un’alternativa per continuare a proporre capi a prezzo più conveniente evitando l’utilizzo di fibra vergine».

Ottenuto tramite un closed-loop system teso a minimizzare lo spreco in tutte le sue declinazioni, questo “cashmere 2.0” non è un’innovazione del Ventunesimo secolo: in Italia sono presenti testimonianze di questa pratica risalenti addirittura al Milleduecento.

Il processo si delinea generalmente nelle seguenti fasi.

 

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